Al loro ritorno trovarono Re Luigi triste e malinconico. Gli erano giunte delle lettere della Regina Bianca che lo esortavano a tornare in Occidente, così che aveva desiderio di partire; ma soffriva al pensiero di abbandonare 12.000 cristiani in Terra Santa mentre era minacciata da una nuova invasione.
I tre Ordini Militari, i baroni e i signori di Palestina, supplicavano il Re di non abbandonarli, dimostrandogli con disperate parole che se venivano privati del suo appoggio, ai cristiani di Siria non rimaneva altro da fare che seguirlo in Occidente.
Luigi IX, si commosse alle loro preghiere e, prima di decidere il da farsi, volle consultare i suoi due fratelli e i principali signori che erano rimasi con lui.
Espose loro pertanto le ragioni che lo spingevano a ritornare in Francia e le ragioni per le quali gli sembrava necessario fermarsi in Palestina; le ragioni che lo spingevano a ritornare in Francia riguardavano il fatto che il suo regno era esposto alla cupidigia del Re d'Inghilterra; le ragioni che lo spingevano a restare in Palestina riguardavano l'infedeltà degli Emiri che non osservavano le principali condizioni del trattato, oltre ai pericoli nei quali versava la Terra Santa.
Esposto così lo stato delle cose, senza aggiungere altre parole che potessero rivelare la sua opinione, esortò i cavalieri ed i baroni a riflettere su quale ragione fosse da scegliere. Nella domenica successiva li convocò nuovamente, richiedendo il loro parere.
Il primo a parlare fu Guido di Malvoisin, ammirato dai Crociati per il
suo coraggio nelle armi e per la saggezza dei suoi consigli; questi, rivoltosi al Re, disse:
“Sire, quando io penso all'onore della tua persona e alla gloria del
tuo regno, non reputo che tu possa ancora indugiare in questo paese. Poiché ricordando il potente
esercito e la grossa armata che con te dall'Isola di Cipro mossero a queste rive, ti accorgerai
facilmente che ora la tua potenza in Oriente è di ogni suo nerbo destituita.
Allora l'esercito cristiano era composto da 2.800 cavalieri con al
seguito le loro bandiere; ora non ti rimangono che appena 100 cavalieri, dei quali la maggior parte
è inferma e priva di armi, di cavalli e di mezzi per procurarsene, così che non possono più militare
con onore.
Tu non hai alcuna città in Oriente e questa in cui siamo appartiene a
più nazioni diverse; così che, rimanendo qui, non darai timore agli infedeli e lascerai crescere
l'ardire dei tuoi nemici in Europa.
Correrai quindi il pericolo di perdere contemporaneamente il regno di
Francia, perché la tua assenza fomenta l'ambizione dei vicini mal disposti e mette in pericolo il
regno di Cristo, contro al quale la tua presenza ecciterà le forze dei musulmani.
Ognuno di noi è dell'opinione che si debba abbassare l'orgoglio dei
Saraceni ma, in questa terra lontana si farebbero male i preparativi di nuova guerra decisiva e
gloriosa. Per questo il mio parere è che tu ritorni in Occidente, dove attenderai alla sicurezza del
tuo Stato e dove, stabilita una pace sicura, potrai agevolmente ottenere i necessari soccorsi per
vendicare la nostra sconfitta e porre riparo alla rovina che ci ha oppresso”.
Il Duca Carlo I di Angiò, il Conte Alfonso III di Poitiers e la maggior parte dei signori francesi che parlarono dopo Guido di Malvoisin convennero tutti nella sua opinione.
Ma quando toccò a Giovanni di Ibelin, Conte di Giaffa ed Ascalona, esporre la sua opinione, rifiutò di parlare giustificandosi con il fatto che, possedendo alcuni castelli in Palestina, poteva essere accusato di parlare in favore della propria causa piuttosto che di quella di Cristo, e al Re non disse altro, eccetto che secondo lui la gloria delle armate cristiane e la salvezza della Terra Santa richiedevano che i Crociati non ritornassero in Europa.
Quando poi toccò a parlare a Jean de Joinville, egli si rammentò del
consiglio datogli dal Signore di Bollaincourt, suo cugino, quando si stava preparando a partire per
la Crociata, il quale gli aveva detto:
“Tu vai oltre mare, ma bada a come ritornerai, poiché nessun
cavaliere, povero o ricco, può ritornarne senza vergogna se lascia nelle forze dei saraceni la
povera plebe in compagnia della quale è partito”.
Quindi, ricordando tale ammonizione disse:
“Non si può abbandonare senza vergogna la moltitudine dei prigionieri
cristiani. Questi sventurati sono al servizio del Re come a quello di Dio e non saranno mai liberi
se il Re sceglie di partire”.
Non vi era alcuno dei cavalieri e dei baroni che non avesse tra i prigionieri parenti o amici; per questo molti non poterono frenare il pianto ascoltando il discorso di Jean de Joinville; ma tali afflizioni non erano però così potenti da soffocare nei loro animi l'estremo desiderio di rivedere la loro patria.
Invano Jean de Joinville fece notare che al Re rimaneva ancora parte del suo tesoro, con il quale poteva assoldare genti in Morea e in altri paesi e che, con i soccorsi che si aspettavano dall'Europa sarebbe stato presto possibile ricominciare la guerra.
Queste ragioni non bastavano a convincere la maggior parte dei signori, per i quali la Crociata
oramai non era altro che un lungo e insopportabile esilio. Solamente il Maresciallo di Francia Jean
Guillaume de Beaumont, era d'accordo con quanto esposto da Jean de Joinville e disse:
“Che risponderemo noi a quelli che al nostro ritorno ci chiederanno
che cosa abbiamo fatto dell'eredità e dei soldati di Gesù Cristo?
Ascoltate i miserevoli abitanti di Palestina che ci accusano di aver
loro portato la guerra e già ci rimproverano che, con la nostra partenza, affretteremo la loro
rovina.
Se gli attesi soccorsi non venissero, avremo sempre tempo e modo di
andarcene, ma perché porre altri alla disperazione senza necessità?
E' vero che i Crociati sono in piccolo numero, ma abbiamo dimenticato
che il loro capo, anche nelle forze dei suoi nemici, si fece da quelli rispettare?
Oltre a ciò ci giunge la notizia che la discordia è tra Saraceni e che
il sultano di Damasco ha dichiarato guerra ai mamelucchi d'Egitto. . . .”
Jean Guillaume de Beaumont voleva continuare il suo discorso, quando suo zio Jean de Beaumont-Gâtinais lo interruppe e gli fece amarissimi rimproveri; benché era intenzione del Re che ognuno manifestasse liberamente il suo parere, il rigido vecchio, persistendo a vociferare contro il nipote, lo costrinse a tacere.
Quando il Re ebbe intesi i pareri dell'assemblea, licenziò i baroni, convocandoli ad un nuovo consiglio per la domenica seguente.
Uscendo dal consiglio, Jean de Joinville fu assalito con pungenti parole dai cavalieri che dissentivano dall'opinione della maggioranza; inoltre, per sua maggiore afflizione, temeva di essere incorso nella disgrazia del Re.
Così, mal soddisfatto di sé stesso e immaginando che il peggio dovesse ancora arrivare, pensò di andarsene dal Principe Boemondo VI di Antiochia, suo parente.
Se ne stava malinconico con tali pensieri, quando il Re lo trasse in disparte e gli disse che era sua intenzione rimanere ancora per qualche tempo in Palestina. Di ciò Jean de Joinville fu tanto contento che in un attimo dimenticò le ingiurie che gli erano state dette dai baroni e cavalieri.
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